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Studenti e cittadinanza 

Quando l’integrazione è solo un miraggio

<< Vorrei una classe tutta araba così non ci rompono se non sappiamo una cosa in italiano, la diciamo in arabo perché non sappiamo come si dice>>. È la frase, sincera e spiazzante, di un bambino di neanche dieci anni, raccolta dalla trasmissione Dritto e Rovescio. Se letta senza contesto, può alimentare stereotipi. Ma se la si ascolta davvero, diventa la spia di un disagio che riguarda migliaia di studenti in Italia.

Secondo i dati relativi all’anno scolastico 2022/2023, sono 914.860 gli alunni con background migratorio nelle scuole italiane: uno su nove. Di questi, il 65,4%% è nato in Italia. Eppure, nonostante vivano nel nostro Paese fin dalla nascita, spesso faticano a sentirsi parte della comunità scolastica. Questo non per mancanza di volontà, ma per un sistema che ancora oggi fatica ad accogliere e valorizzare la diversità. Fin dai primi anni, questi studenti si scontrano con ostacoli quotidiani: iter complicati per partecipare alle gite scolastiche, mancanza di piani didattici personalizzati, scarsità di mediatori culturali e un corpo docente raramente formato per affrontare la complessità delle classi multiculturali. Così, invece di diventare uno spazio di crescita e cittadinanza, la scuola rischia di trasformarsi in un luogo di esclusione silenziosa.

Il 17,9% degli studenti con background migratorio dichiara di non sentirsi parte della propria scuola. Tra chi ha ottenuto la cittadinanza, la percentuale scende al 13,8%: un segnale chiaro del valore del riconoscimento formale, che contribuisce anche a un maggiore senso di appartenenza.
A preoccupare, però, è anche il dato sull’interruzione scolastica: l’11% degli studenti stranieri ha sospeso il percorso per almeno sei mesi. Le ragioni? Difficoltà linguistiche, necessità di contribuire in famiglia, o semplicemente la sensazione che la scuola non serva a nulla. In molti casi persino l’impossibilità di trovare un posto in un istituto a causa del tetto massimo del 30% di alunni con “ridotta conoscenza della lingua italiana”, che finisce per funzionare da barriera anziché da strumento di equità. Il confronto con i dati relativi agli studenti con cittadinanza italiana ottenuta è significativo: tra loro, solo l’1,5% ha sospeso gli studi, e nella quasi totalità dei casi per difficoltà di accesso alle scuole. Questo evidenzia come l’esclusione scolastica non sia un fatto culturale, ma sistemico. Nel frattempo, la risposta pubblica e politica si concentra ancora su concetti come “classi ghetto”, alimentando una retorica dell’invasione che contribuisce a isolare ancora di più chi avrebbe bisogno, al contrario, di strumenti per integrarsi.

Eppure, il problema non sono gli studenti. Sono le istituzioni scolastiche spesso incapaci di leggere la complessità e trasformarla in valore. In un paese che si definisce democratico, la scuola dovrebbe essere il primo luogo in cui si sperimenta il diritto all’uguaglianza. E invece, per troppi ragazzi, è il primo spazio dove imparano cosa significa sentirsi esclusi. Se vogliamo davvero parlare di inclusione, dobbiamo cominciare col dare alle parole il peso delle azioni: formazione, risorse, ascolto. Senza paura delle differenze, ma con la responsabilità di costruire giustizia.